Gli anni ‘50
Montebelluna negli anni ‘50
è ancora prevalentemente campagna.
Niente semafori, marciapiedi, ingorghi di traffico.
L’illuminazione pubblica è costituita da alcune lampade.
Corso Mazzini è quasi “un’ isola pedonale”.
Il pendolarismo non è fenomeno diffuso, ma non si creda che i tempi per recarsi sui luoghi di lavoro fossero brevi. A causa della frantumazione agraria un contadino è spesso obbligato a percorrere diversi chilometri per raggiungere il campo da lavorare. Il mezzo di trasporto più diffuso è ancora il carro a buoi e recarsi da Biadene al Bosco Montello, oppure da Caonada a Guarda è una lunga pena: non meno di due-tre ore.
La mentalità è ancora permeata di principi religiosi.
La frequenza ai riti domenicali è molto sentita.
Niente semafori, marciapiedi, ingorghi di traffico.
L’illuminazione pubblica è costituita da alcune lampade.
Corso Mazzini è quasi “un’ isola pedonale”.
Il pendolarismo non è fenomeno diffuso, ma non si creda che i tempi per recarsi sui luoghi di lavoro fossero brevi. A causa della frantumazione agraria un contadino è spesso obbligato a percorrere diversi chilometri per raggiungere il campo da lavorare. Il mezzo di trasporto più diffuso è ancora il carro a buoi e recarsi da Biadene al Bosco Montello, oppure da Caonada a Guarda è una lunga pena: non meno di due-tre ore.
La mentalità è ancora permeata di principi religiosi.
La frequenza ai riti domenicali è molto sentita.
I bambini, come i loro
coetanei dell’inizio del secolo, indossano le gonnelline che smettono con
l’ingresso nella scuola elementare
La scuola di massa è ancora quella elementare (e non tutti arrivano fino alla V° classe). La scuola media è riservata ai figli della borghesia. Per molti figli di contadini e operai un’alternativa per istruirsi con poca spesa è il collegio dei Missionari della Consolata, per trent’anni ospiti a Villa Pisani di Biadene e di idee più aperte rispetto al clero locale.
L’arredamento scolastico è molto spartano, le stufe in terracotta.
La scuola di massa è ancora quella elementare (e non tutti arrivano fino alla V° classe). La scuola media è riservata ai figli della borghesia. Per molti figli di contadini e operai un’alternativa per istruirsi con poca spesa è il collegio dei Missionari della Consolata, per trent’anni ospiti a Villa Pisani di Biadene e di idee più aperte rispetto al clero locale.
L’arredamento scolastico è molto spartano, le stufe in terracotta.
Il controllo del divertimento trova d’accordo il potere civile
e quello religioso. Valga per tutti l’esempio dell’Amministrazione Comunale che
rifiuta il permesso di organizzare una festa da ballo il giorno di Pasquetta:
una decisione che, in bocca al Sindaco evidenzia come il potere pubblico (la
DC) fosse ancora fortemente condizionato da una visione religiosa.
“Lunedì dopo Pasqua non sembra essere il più indicato ad indire qui trattenimenti danzanti, sapendo che in quella particolare giornata in occasione della tradizionale conosciutissima “sagra” di Cornuda troppa gente è solita concedersi licenze ed avvinazzamenti che ben difficilmente si riscontrano in altre occasioni.
Nella tema adunque che qualche spiacevole e serio incidente venga a turbare la serenità delle nostre belle e sante feste Pasquali rinnovo il mio contrario parere nella concessione da farsi al Sig. Polin sopracitato in merito alla sua richiesta di tenere una festa danzante popolare presso il Cinema Italia nella giornata sopra indicata.
(Lettera del Sindaco alla Questura di Treviso - 7 aprile 1950)
Molto osteggiato era il nuoto praticato nei corsi d’acqua (la Brentella).
Non era raro il caso che intraprendenti cappellani sottraessero i vestiti smessi da giovani bagnanti.
Nel pazzo inverno 1956 i contadini voltarono le spalle a una delle tradizioni più belle, quella del filò.
Era il filò il tempo più dolce della giornata le ore più serene e ristoratrici: mentre gli uomini impagliavano sedie, le donne mettevano toppe sui pantaloni e le tose ricevevano i morosi. C’era sempre qualche vecchio che raccontava affascinanti storie di una volta: di guerre, di incendi, di alluvioni, di carestie, di maghi, di spiriti, di streghe . . . ogni sera sempre le stesse storie ma i bambini non si stancavano mai: quei racconti erano come il pane quotidiano ogni giorno si mangia e sempre così.
Poi si pregava: per gli emigrati, per i malati, per i carcerati, per le anime purganti . . . Erano rosari, litanie e coroncine interminabili.
Era il filò l’immagine d’amore fraterno fra uomini e animali. Il calore delle vacche era l’ultimo loro dono dopo le grandi fatiche autunnali . Era l’immagine santa del presepio con San Giuseppe, la Madonna, Gesù, il bue, l’asinello. Quando poi era prossimo il Natale nell’aria echeggiava la musica delle zampogne e puntuali ogni anno i pastori scendevano dalle montagne per chiedere una fetta di polenta offrendo in cambio ai contadini un po' di sogni.
Nell’inverno 1956 gli uomini impazzirono. Ogni sera contadini, operai, impiegati, commercianti, donne, uomini, ragazzi correvano nei bar e litigavano per occupare le prime file; si affollavano dentro una stanza fumosa dove troneggiava in alto una scatola nera con un enorme occhio di vetro che in quell’inverno pazzo divenne il cuore pazzo del paese: la televisione!
La televisione, come una strega invidiosa, uccise il filò. I contadini cominciarono a vergognarsene e in particolare i giovani dicevano che la stalla è posto per le bestie e non per gli uomini. Nei bar con la luce al neon, il bancone di formica e la reclame di gazzosa, c’era il vero filò dei ricchi, della città, del progresso, della modernità.
La televisione era un bazar caleidoscopico che offriva magie infinite: canzonette, films da ridere e da piangere, balli, notizie, cultura (Lascia o raddoppia!), curiosità stravaganti e perfino il Papa.
Il Papa! Non occorreva più andare a Roma per vederlo in pellegrinaggio con 14 ore di treno (il 1950 era stato l’Anno Santo) . . . bastava andare al bar, schiacciare un bottone e saltava fuori il Papa in persona biancovestito e benedicente (la benedizione era valida anche per l’indulgenza). Chissà, un giorno il progresso moderno avrebbe mostrato persino un’apparizione di Nostro Signore trasfigurato sul monte Tabor . . .
“Lunedì dopo Pasqua non sembra essere il più indicato ad indire qui trattenimenti danzanti, sapendo che in quella particolare giornata in occasione della tradizionale conosciutissima “sagra” di Cornuda troppa gente è solita concedersi licenze ed avvinazzamenti che ben difficilmente si riscontrano in altre occasioni.
Nella tema adunque che qualche spiacevole e serio incidente venga a turbare la serenità delle nostre belle e sante feste Pasquali rinnovo il mio contrario parere nella concessione da farsi al Sig. Polin sopracitato in merito alla sua richiesta di tenere una festa danzante popolare presso il Cinema Italia nella giornata sopra indicata.
(Lettera del Sindaco alla Questura di Treviso - 7 aprile 1950)
Molto osteggiato era il nuoto praticato nei corsi d’acqua (la Brentella).
Non era raro il caso che intraprendenti cappellani sottraessero i vestiti smessi da giovani bagnanti.
Nel pazzo inverno 1956 i contadini voltarono le spalle a una delle tradizioni più belle, quella del filò.
Era il filò il tempo più dolce della giornata le ore più serene e ristoratrici: mentre gli uomini impagliavano sedie, le donne mettevano toppe sui pantaloni e le tose ricevevano i morosi. C’era sempre qualche vecchio che raccontava affascinanti storie di una volta: di guerre, di incendi, di alluvioni, di carestie, di maghi, di spiriti, di streghe . . . ogni sera sempre le stesse storie ma i bambini non si stancavano mai: quei racconti erano come il pane quotidiano ogni giorno si mangia e sempre così.
Poi si pregava: per gli emigrati, per i malati, per i carcerati, per le anime purganti . . . Erano rosari, litanie e coroncine interminabili.
Era il filò l’immagine d’amore fraterno fra uomini e animali. Il calore delle vacche era l’ultimo loro dono dopo le grandi fatiche autunnali . Era l’immagine santa del presepio con San Giuseppe, la Madonna, Gesù, il bue, l’asinello. Quando poi era prossimo il Natale nell’aria echeggiava la musica delle zampogne e puntuali ogni anno i pastori scendevano dalle montagne per chiedere una fetta di polenta offrendo in cambio ai contadini un po' di sogni.
Nell’inverno 1956 gli uomini impazzirono. Ogni sera contadini, operai, impiegati, commercianti, donne, uomini, ragazzi correvano nei bar e litigavano per occupare le prime file; si affollavano dentro una stanza fumosa dove troneggiava in alto una scatola nera con un enorme occhio di vetro che in quell’inverno pazzo divenne il cuore pazzo del paese: la televisione!
La televisione, come una strega invidiosa, uccise il filò. I contadini cominciarono a vergognarsene e in particolare i giovani dicevano che la stalla è posto per le bestie e non per gli uomini. Nei bar con la luce al neon, il bancone di formica e la reclame di gazzosa, c’era il vero filò dei ricchi, della città, del progresso, della modernità.
La televisione era un bazar caleidoscopico che offriva magie infinite: canzonette, films da ridere e da piangere, balli, notizie, cultura (Lascia o raddoppia!), curiosità stravaganti e perfino il Papa.
Il Papa! Non occorreva più andare a Roma per vederlo in pellegrinaggio con 14 ore di treno (il 1950 era stato l’Anno Santo) . . . bastava andare al bar, schiacciare un bottone e saltava fuori il Papa in persona biancovestito e benedicente (la benedizione era valida anche per l’indulgenza). Chissà, un giorno il progresso moderno avrebbe mostrato persino un’apparizione di Nostro Signore trasfigurato sul monte Tabor . . .
Il calzaturiero riprende vigore.
1946 - ‘50
Nel 1940, a 11 anni facevo il garzone in un piccolo laboratorio che contava 10 operai e faceva scarpe per l’esercito. Nel 1946 divenni tagliatore, nel 1948 modellista alla San Marco. (Sante Mazzarolo)
Per i fratelli Caberlotto è decisivo che al ritorno dalla guerra trovino intatti e ancora funzionanti i due furgoncini che erano stati nascosti in un portico, nella speranza che non fossero usati per scopi bellici.
Si riprende a fare scarpe con entusiasmo. I calzolai dell’epoca guadagnavano discretamente (la paga mensile era sulle 18-20.000 lire). Anche se poi ognuno, nel tempo libero, faceva il contadino e lavorava il pezzo di terra che possedeva vicino a casa.
La scarpa era comunque un prodotto costoso; il suo prezzo si aggirava (anni ‘50) sulle 5.000 lire.(Giovanni Caberlotto)
Ho cominciato a lavorare a 9 anni, in una fabbrica di Cornuda (La Rondini) e sono rimasto fino al 1949. Non venivo retribuito perché imparavo il mestiere. Per guadagnarmi qualcosa mi portavo a casa il lavoro, alla sera, e lavoravo a cottimo. In tempo di guerra molti lavoravano gratis, solo per essere ‘messi in regola’ e ricevere poi gli assegni familiari.
A 15 anni ho cambiato lavoro, sono andato al calzaturificio San Marco con la qualifica di tagliatore. Spesso mi fermavo dopo il lavoro perché c’erano le prime macchine e volevo imparare.(Dino Signori)
Ho cominciato a 12 anni. Per mesi e mesi ho lavorato tutti i giorni della settimana, compresa la domenica mattina, senza vedere un senza fare un periodo di ferie. (Romolo Deon)
Ho iniziato a lavorare a 16 anni, nell’azienda di mio padre, con 7 operai. Producevamo scarpe per i cavatori di roccia, per i boscaioli e i guardiacaccia. (Giancarlo Zanatta)
“Trovo un buco di negozio, io stesso giro in moto per rifornire di scarpe la scarsa clientela. Mia moglie si occupa dell’amministrazione. Un operaio, due, dieci. Una stanza, un capannone: un pezzo dopo l’altro, come nelle costruzioni che fanno i bambini.”(Santo Tessaro)
Il Censimento del 1951 mette in luce come a Montebelluna la trasformazione sia lenta. Rispetto al 1936 si nota solo una lieve diminuzione degli addetti nell’agricoltura e un certo aumento di quelli nell’industria.
1946 - ‘50
Nel 1940, a 11 anni facevo il garzone in un piccolo laboratorio che contava 10 operai e faceva scarpe per l’esercito. Nel 1946 divenni tagliatore, nel 1948 modellista alla San Marco. (Sante Mazzarolo)
Per i fratelli Caberlotto è decisivo che al ritorno dalla guerra trovino intatti e ancora funzionanti i due furgoncini che erano stati nascosti in un portico, nella speranza che non fossero usati per scopi bellici.
Si riprende a fare scarpe con entusiasmo. I calzolai dell’epoca guadagnavano discretamente (la paga mensile era sulle 18-20.000 lire). Anche se poi ognuno, nel tempo libero, faceva il contadino e lavorava il pezzo di terra che possedeva vicino a casa.
La scarpa era comunque un prodotto costoso; il suo prezzo si aggirava (anni ‘50) sulle 5.000 lire.(Giovanni Caberlotto)
Ho cominciato a lavorare a 9 anni, in una fabbrica di Cornuda (La Rondini) e sono rimasto fino al 1949. Non venivo retribuito perché imparavo il mestiere. Per guadagnarmi qualcosa mi portavo a casa il lavoro, alla sera, e lavoravo a cottimo. In tempo di guerra molti lavoravano gratis, solo per essere ‘messi in regola’ e ricevere poi gli assegni familiari.
A 15 anni ho cambiato lavoro, sono andato al calzaturificio San Marco con la qualifica di tagliatore. Spesso mi fermavo dopo il lavoro perché c’erano le prime macchine e volevo imparare.(Dino Signori)
Ho cominciato a 12 anni. Per mesi e mesi ho lavorato tutti i giorni della settimana, compresa la domenica mattina, senza vedere un senza fare un periodo di ferie. (Romolo Deon)
Ho iniziato a lavorare a 16 anni, nell’azienda di mio padre, con 7 operai. Producevamo scarpe per i cavatori di roccia, per i boscaioli e i guardiacaccia. (Giancarlo Zanatta)
“Trovo un buco di negozio, io stesso giro in moto per rifornire di scarpe la scarsa clientela. Mia moglie si occupa dell’amministrazione. Un operaio, due, dieci. Una stanza, un capannone: un pezzo dopo l’altro, come nelle costruzioni che fanno i bambini.”(Santo Tessaro)
Il Censimento del 1951 mette in luce come a Montebelluna la trasformazione sia lenta. Rispetto al 1936 si nota solo una lieve diminuzione degli addetti nell’agricoltura e un certo aumento di quelli nell’industria.
Il calzaturiero non è ancora il
settore più importante nel distretto (solo il 22.3% degli addetti
nell’industria manifatturiera risulta essere impiegato
nell’abbigliamento-calzature, mentre, ben il 53.3 % è concentrato nel tessile).
L’arretratezza del distretto di Montebelluna è ben evidenziata dalla modesta diffusione del telefono. (Anche se i dati si riferiscono a prima della guerra)
L’arretratezza del distretto di Montebelluna è ben evidenziata dalla modesta diffusione del telefono. (Anche se i dati si riferiscono a prima della guerra)
Il processo
di maturazione imprenditoriale attraverso il passaggio da produzioni di tipo
artigianale a produzioni di tipo industriale si accentua negli anni ‘50.
La prima è l’industria tessile; il settore dell’abbigliamento, in particolare, è caratterizzato da uno straordinario sviluppo delle confezioni in serie. Segue anche il calzaturiero.
Nel ‘50 viene acquistato un camioncino nuovissimo, il Lancia Belta, che rafforza la distribuzione di calzature la cui domanda continua a crescere.
Sempre nel ‘50 l’azienda comincia a rifornire i grossisti, dopo aver venduto al dettaglio per decenni. Nel ‘55-60 compaiono le prime macchine per la fabbricazione delle calzature che prima venivano tagliate e cucite a mano.(Giovanni Caberlotto)
Noi abbiamo avuto successo nell’attività industriale perché siamo stati soci della Dolomite dal ‘34 al ‘38, poi, senza particolari problemi, ci siamo messi per conto nostro. Nel ‘52/’53, è entrato mio cugino Aldo che ha portato una ventata di novità, di capacità, di giovinezza, un cambio generazionale insomma, poi nel ‘58 sono entrato io.
L’introduzione delle macchine avviene a metà degli anni ‘50, anche se nel ‘58, alla Nordica, i modelli migliori venivano fatti ancora completamene a mano. (Franco Vaccari)
La prima è l’industria tessile; il settore dell’abbigliamento, in particolare, è caratterizzato da uno straordinario sviluppo delle confezioni in serie. Segue anche il calzaturiero.
Nel ‘50 viene acquistato un camioncino nuovissimo, il Lancia Belta, che rafforza la distribuzione di calzature la cui domanda continua a crescere.
Sempre nel ‘50 l’azienda comincia a rifornire i grossisti, dopo aver venduto al dettaglio per decenni. Nel ‘55-60 compaiono le prime macchine per la fabbricazione delle calzature che prima venivano tagliate e cucite a mano.(Giovanni Caberlotto)
Noi abbiamo avuto successo nell’attività industriale perché siamo stati soci della Dolomite dal ‘34 al ‘38, poi, senza particolari problemi, ci siamo messi per conto nostro. Nel ‘52/’53, è entrato mio cugino Aldo che ha portato una ventata di novità, di capacità, di giovinezza, un cambio generazionale insomma, poi nel ‘58 sono entrato io.
L’introduzione delle macchine avviene a metà degli anni ‘50, anche se nel ‘58, alla Nordica, i modelli migliori venivano fatti ancora completamene a mano. (Franco Vaccari)
Montebelluna sul K 2
Il Distretto di Montebelluna si va specializzando nello scarpone da sci, senza smettere tuttavia di produrre le tradizionali scarpe da montagna. Anzi, è grazie a queste che Montebelluna raggiunge un momento di fama mondiale.
1950-‘55 Domina all’interno della fabbrica la figura del modellista, che segue l’intero ciclo produttivo. La produzione giornaliera di un laboratorio non supera la decina di paia.
Prima di entrare alla Caber come modellista, ho aiutato mio padre che faceva il ciabattino. (Toni Gazzola)
Il lavoro è stagionale.
Nel 1955 la Munari conta circa 500 dipendenti di cui 80 cucitori a mano. Con lo scarpone da sci si lavora 6 mesi. Io propongo di fabbricare mocassini: in parte col marchio Munari, in parte tomaie per la Rainberg, Germania e la Koflach Austria. (Danilo Trippi)
1956 A Cortina d’Ampezzo si tengono i Giochi Olimpici che si dimostrano un importante canale di diffusione dello sci e richiamano l’attenzione di tutto il mondo, in particolare del mercato americano, sulla produzione dell’area montebellunese.
Il Distretto di Montebelluna si va specializzando nello scarpone da sci, senza smettere tuttavia di produrre le tradizionali scarpe da montagna. Anzi, è grazie a queste che Montebelluna raggiunge un momento di fama mondiale.
1950-‘55 Domina all’interno della fabbrica la figura del modellista, che segue l’intero ciclo produttivo. La produzione giornaliera di un laboratorio non supera la decina di paia.
Prima di entrare alla Caber come modellista, ho aiutato mio padre che faceva il ciabattino. (Toni Gazzola)
Il lavoro è stagionale.
Nel 1955 la Munari conta circa 500 dipendenti di cui 80 cucitori a mano. Con lo scarpone da sci si lavora 6 mesi. Io propongo di fabbricare mocassini: in parte col marchio Munari, in parte tomaie per la Rainberg, Germania e la Koflach Austria. (Danilo Trippi)
1956 A Cortina d’Ampezzo si tengono i Giochi Olimpici che si dimostrano un importante canale di diffusione dello sci e richiamano l’attenzione di tutto il mondo, in particolare del mercato americano, sulla produzione dell’area montebellunese.